Capitolo 8

IL TEMPO DELLA STORIA

L'uomo storico

Il comune denominatore dei simboli di cui ci siamo occupati è dato dal particolare sforzo creativo con il quale le varie culture tendono ad acquisire il controllo di quanto sembra sfuggire, nella concreta esperienza esistenziale, ad ogni altro mezzo di controllo. Tutto quanto nel reale non è oggetto di diretto controllo tecnico viene controllato simbolicamente. Tramite questo controllo simbolico si riconduce all'uomo ciò che è tecnicamente incontrollabile investendolo di valori umani e attribuendogli un significato. Vengono così giustificati, resi accettabili e possibili tutti quegli sforzi indispensabili all'esistenza. Ed in realtà, anzi, il piano del controllo tecnico del reale e il piano del controllo simbolico si intersecano e si fondono al punto che in effetti le azioni tecniche sono possibili soltanto in un quadro simbolico che fornisca loro giustificazione morale e motivazione, che doni loro un significato. Nessuna azione è per l'uomo una semplice azione pratica, tecnica: tutte comportano un valore simbolico, significano qualcosa. Questo valore simbolico non è separabile dall'azione concreta come se si trattasse di un qualcosa in più, di una aggiunta di cui si potrebbe fare a meno. E' il significato che vi proiettiamo a rendere una qualsiasi azione pratica un'azione dell'uomo.

Ciò che ha segnato il distacco dell'uomo dal resto degli animali, ciò che lo qualifica come uomo, è stata la produzione della cultura, cioè dei sistemi simbolici, quale strumento di adattamento all'ambiente. E' la cultura l'elemento che contraddistingue l'uomo e lo contrappone alle altre specie animali e al complesso della "natura" nella quale, tuttavia, rischia di precipitare nuovamente. Di qui un elemento di crisi, di rischio di perdita della presenza, di smarrimento dei valori, che costituisce un carattere immanente della coscienza, un dato permanente della condizione umana. Questa crisi l'uomo si sforza di dominarla, superando continuamente ciò che rischia di travolgerlo e producendo simboli e valori in grado di significare il mondo e l'esistenza e quindi di vivere. Di qui il carattere "storico" dell'uomo, portatore di cultura e creatore di forme sempre nuove e rinnovate di cultura.

La diffusione dell'uomo sulla terra, sin dalla preistoria, ha condotto all'elaborazione di culture estremamente differenziate e mutevoli, che si sono però continuamente intrecciate e incontrate in una continua, permanente, serie di scambi reciproci e di assimilazioni culturali.

Naturalmente questa concezione della "storicità" dell'uomo non è un dato universale. E' una concezione nostra, della cultura occidentale e cristiana. Non c'è una comune natura umana ma una comune storia umana, la quale, però, è ricostruibile (e conoscibile) solo all'interno della cultura occidentale, la sola che ha elaborato la categoria della storia come strumento per ordinare il reale, conoscere gli altri e se stessi. Altre culture avranno altre categorie, mitiche e rituali, per esempio. Ed anche altri valori. L'umanità come valore, ad esempio, l'umanità come universalità, è un valore nostro e non di tutte le culture. Non c'è un modo di giudicare in assoluto queste categorie e questi valori. Non ci sono culture migliori e culture peggiori ed ogni sistema di pensiero (come ogni sistema di valori) è relativo ad ogni singola cultura.

Non possiamo pertanto dire che le nostre categorie interpretative, in particolare la storia, siano migliori. Sono però le nostre e donano, solo a noi, una possibilità del tutto particolare. Solo nella nostra cultura è possibile una comprensione storica, non mitizzata, degli altri. Solo nel nostro storicismo è possibile inquadrare fatti, istituti e uomini che in sé non si comprendono affatto come storici. Solo noi consideriamo la realtà un prodotto storico umano e pertanto perfettamente comprensibile mediante la storia.

Questo non significa che la nostra cultura sia superiore. Al contrario significa che a noi spetta la responsabilità storica di comprendere gli altri, responsabilità alla quale ci sottraiamo ingiustificatamente quando rinunciamo a capire e ci lasciamo guidare da forme mitiche e irrazionali di pensiero. Rinunciare alla nostra responsabilità significa rinunciare alla nostra cultura.

Tutto questo significa che il senso della conoscenza storica degli altri non sta nella raccolta di dati ed elementi estranei alla nostra cultura, come se il motivo della ricerca fosse solo una vaga curiosità dell'esotico. Il senso della ricerca non è conoscere gli altri ma conoscere noi, aumentare il nostro livello di consapevolezza. Ciò avviene ampliando e modificando l'uso delle nostre categorie interpretative e di pensiero mediante la loro applicazione ad argomenti apparentemente "irrazionali" (quali erano definibili quelli religiosi). Il risultato è la relativizzazione delle nostre categorie, la presa di coscienza che queste categorie non sono assolute ma storicamente condizionate e prodotte. Questo non equivale però allo scetticismo: dire che le nostre categorie sono condizionate e relative non equivale a dire che non sono nulla. Sono un prodotto storico (come noi del resto) ma sono il nostro prodotto storico, sono le nostre categorie. E non possiamo abbandonarle senza rinunciare a noi stessi.

Storicismo e storicizzazione delle categorie

Noi non abbiamo, naturalmente, altra possibilità di pensare e di giudicare che tramite le nostre categorie di pensiero. Esse non sono nulla ma le forme mediante le quali valutiamo il presente e, pertanto, anche il passato: con esse costruiamo l'immagine del reale. Tra queste categorie è l'unità della presenza, lo "IO" e quant'altro è stato elaborato e distillato dalla filosofia occidentale: dal rapporto causa-effetto alle forme dell'intuizione, alla ragione matematica, alle scienze, fino all'arte, l'economia, la storia: soprattutto la storia. Lo storicismo è dunque "un modo di pensare nostro" del quale, però, non possiamo fare a meno. E' il modo che abbiamo, in senso lato, per intendere il, e mettere ordine nel, cosmo.

Lo spirito, la cultura occidentale, utilizza la storia per comprendere il mondo e la realtà, compresa la realtà propria. E' chiaro allora che non esistono epoche storiche in sé: esse sono il risultato della costruzione dello spirito con distinzioni operate dalle categorie storiografiche secondo il rilievo che di volta in volta ci conviene dare al tale o talaltro ordine di fatti. In altre parole le epoche storiche sono costrutti storiografici. Discorso simile per tutti gli "oggetti" della storia. Questo però non significa che il soggetto che compone questi costrutti storiografici - e cioè la cultura occidentale che abbiamo scelto di chiamare "spirito" - sia una realtà eterna, sottratta alla storia. Né equivale a dire, naturalmente, che sono eterne e immutabili le categorie del giudizio. Entrambi, soggetto e categorie, sono il prodotto di un processo storico che, peraltro, unicamente quel soggetto e quelle categorie possono ripercorrere e ricostruire nella sua realtà storica. La cultura occidentale è l'unica capace di pensare in modo storico e l'unica pertanto in grado di comprendere non solo gli altri ma anche se stessa non come un assoluto ma come un prodotto storico. Questo significa che lo storicismo è esso stesso un prodotto della storia. Sono pertanto pensabili età storiche ed altre culture nelle quali lo storicismo non si è sviluppato. Così come è del pari pensabile, in linea di principio, uno sviluppo della cultura occidentale che rinunci, in tutto o in parte, allo storicismo, anche se in questo caso più che uno sviluppo avremmo a che fare con una frattura netta rispetto alla linea di tendenza corrente. La nostra cultura non è sempre stata e non è detto che sarà sempre: essa va conservata e costruita.

Lo storicismo e le categorie storiografiche sono contemporaneamente: da una parte il risultato della storia, un prodotto storico; dall'altra la coscienza che consente di giudicare storicamente, conoscere in senso storico, prendere atto della realtà storica, produrre storia. Un cerchio che però non è aporetico. E' la storicizzazione dello stesso storicismo. Storicizzazione che significa relativizzazione ma non annullamento. Lo storicismo non è un assoluto e tuttavia noi, almeno noi occidentali, non possiamo farne a meno. Ne siamo dentro - sia nel senso che ne siamo prodotto sia nel senso che lavoriamo per produrlo - e costituisce l'essenza della nostra civiltà. E' chiaro allora che noi, se non vogliamo rinunciare ad essere noi stessi e abdicare alla nostra Ragione, possiamo pensare solo nei termini della nostra civiltà: appunto in quei termini che riassumiamo con una parola, lo storicismo.

A voler essere complicati e ad usare termini difficili potremmo dire che ontologicamente la storia produce lo storicismo come spirito dell'Occidente, mentre gnoseologicamente è l'Occidente a costruire la nozione di storia. In realtà è chiaro: che ogni cultura può pensare, giudicare ed agire solo nei termini delle categorie che le sono proprie; che i termini e le categorie della nostra cultura (senza i quali non ci comprenderemmo come uomini, almeno nel senso che noi associamo alla parola umanità) sono lo storicismo; che lo storicismo non è una realtà eterna che noi abbiamo accidentalmente scoperto (quasi si trattasse di un pensiero universale che funziona anche se nessuno se ne accorge oppure come se si trattasse di una realtà di fondo che esiste indipendentemente dai soggetti) bensì un prodotto storico peculiare della nostra civiltà.

Le nostre categorie di giudizio non sono eterne né universali ma noi, se non vogliamo abdicare a quella che nei nostri termini è la Ragione, non possiamo fare a meno di esse. Si tratta di un possesso non permanente, non garantito, ma da conquistare ogni volta. Un maggiore ampliamento della consapevolezza storiografica è proprio la storicizzazione dello storicismo. Lo spirito (e le categorie) non è la base di partenza per giudicare il mondo ma l'obbiettivo, il fine, l'impegno etico nella lotta per trascendere l'esistente. Al di là dell'idealismo, che mistifica le contraddizioni della realtà, lo storicismo è capace di sintetizzare i più alti valori della cultura Occidentale e quindi di essere assunto come modello metodologico per un umanesimo nuovo e integrale.

Cristianesimo e demitizzazione

L'apparato mitico-rituale ha presso le varie culture la funzione di elaborare un sistema simbolico che, a vari livelli, è in grado di comporre o limitare le crisi esistenziali connesse con i rischi del bisogno e della morte, risolvere o mascherare conflitti e contraddizioni, donare significato alla presenza storica degli uomini, costruire e giustificare un sistema di valori che costituiscono poi la caratteristica peculiare di una particolare civiltà. In realtà più che dall'apparato mitico-rituale inteso come parte limitata di una determinata cultura questi compiti sono svolti dalla cultura nel suo complesso e dunque dovremmo ragionevolmente parlare di cultura e non solo di miti e riti. Se distinguiamo e doniamo qui un'enfasi particolare al complesso mitico-rituale è solo per porre la nostra attenzione sul ruolo di fondazione della realtà che presso molte culture spetta a ciò che definiamo, con termini nostri, mito e rito.

Ciò che accomuna queste due funzioni culturali è la loro azione destorificante: la ripetizione, mitica o rituale che sia, sottrae al divenire storico alcune situazioni o condizioni esistenziali, donando loro un significato ed un valore che trascende il semplice accadere storico. Essi proteggono, cioè, dal "terrore della storia", dall'insignificanza e dal pericolo che i singoli accadimenti quotidiani possono assumere. La storia, ma più corretto sarebbe il divenire quotidiano, ha bisogno di conferme e di certezze che non possiede in sé. Il ruolo del complesso mitico-rituale, in molte culture, è proprio quello di dare alla storia questi significati, queste conferme, queste certezze. Su un piano astratto, fenomenologico, il mito, e il rito, rappresentano dunque una fuga dalla storia, una ricerca del senso della vita su un piano metastorico, o meglio su un piano destorificato. Naturalmente le varie culture poi, in termini concreti, non solo ricorrono in misura varia e diversa alla destorificazione, ognuna destorificando solo certi valori e aspetti dell'esistenza e non altri, ma la stessa "fuga dalla storia" non solo non è mai totale essendo sempre presente il senso della concretezza del reale, ma è finalizzata proprio a consentire il dispiegarsi di un esistenza nella quotidianità. Non esistono, perciò, culture "tutte mitiche", tutte immerse nel sacro di una religiosità totale e "spontanea", prive di qualsiasi coscienza tecnica, morale, prive di consapevolezza.

Su un piano astratto, e semplificando molto, al solo fine di stabilire un confronto con la nostra concezione del tempo storico, possiamo immaginare la concezione del tempo propria delle culture nei quali i simboli mitici sono fortemente attivi come quella di un tempo ciclico. Nulla è mai veramente nuovo nel tempo perché tutto è già stato fondato in modo definitivo "in illo tempore" e ogni volta che il mito viene narrato avviene una riattualizzazione della realtà dei primordi. Gli stessi riti, pur finalizzati al controllo di ciò che le culture vogliono come mutabile, sono spesso fondati miticamente (pur con rilevanti eccezioni: la cultura romana classica).

Con una certa approssimazione possiamo affermare che i riti hanno il compito di far entrare il nuovo in un ordine temporale chiuso. Miti e riti riassorbono nel metastorico le novità del divenire temporale, annullandolo o comunque controllandolo di fatto per riportare le novità in un ordine di stabilità. La conquista della coscienza cronologica e il riconoscimento culturale del divenire storico sono il risultato di un processo del quale è possibile seguire le tracce. E' nell'antico Medio Oriente, con la realizzazione dell'istituto dinastico nel quale un re è tale se discendente da un'altro re, che la necessità della conoscenza delle genealogie conduce alla coscienza del processo temporale come continuo mutamento, come serie continua di novità. Nell'Egitto dei faraoni, nella cultura iranica, nell'ebraismo biblico, si inizia ad aprire una dimensione del tempo come linea retta, con un'origine, un termine e la possibilità di misurazioni intermedie che scandiscono la scala cronologica del passato. Apparati mitico-rituali hanno ancora la funzione di proteggere dalle novità assolute, lo stesso istituto dinastico ha bisogno di conferme mitiche, tuttavia sorge il senso della storia come ineluttabile mutamento cronologico.

L'estremo, radicale sviluppo di questa rivoluzione culturale avviene con il Cristianesimo. L'Incarnazione di Dio nella storia qualifica in modo irreversibile il passato ed il presente. La "storia della salvezza" procede nel segno della diversità qualitativa del tempo e dell'apertura all'avvenire. Alla ciclicità temporale del mito si contrappone un decorso temporale unico e irreversibile, il cui centro è un fatto pienamente storico: l'Incarnazione. Alla stabilità mitica, nella quale il senso della vita è posto una volta per tutte in seguito alle vicende primordiali, si contrappone un ordine escatologico articolato nei momenti del presente, del passato, dell'avvenire. All'agire miticamente concluso degli esseri extraumani si contrappone la manifestazione in vari, successivi momenti, del disegno divino per la salvezza dell'uomo: la creazione, la caduta del peccato, il Patto con Israele, l'Incarnazione, il secondo e definitivo Avvento.

Naturalmente questo non significa che i simboli religiosi cristiani non abbiano una struttura e una manifestazione mitico-rituali. Anche il Cristianesimo è organizzato secondo una ripetizione liturgica e rituale ( la settimana, l'anno liturgico, la celebrazione delle messe ...) di eventi particolarmente significativi ormai trascorsi. Tuttavia esistono differenze di base tra i simboli mitici e quelli cristiani, differenze che rendono il Cristianesimo originale e rivoluzionario rispetto alle altre culture. La funzione mitica (e rituale), mediante il suo articolarsi in azioni ed eventi inaugurali, è quella di riassorbire la concreta molteplicità storica, il divenire incontrollato del tempo, nella ripetizione (narrata nel mito ed agita nel rito) delle origini, e comunque di azioni fondatrici ed autenticatrici. Ne risulta una destorificazione mitico-rituale che da luogo ad una "esistenza protetta" dalle contingenze, dalle novità, dai rischi dell'agire storico. Il simbolismo cristiano, unico e differente da tutti gli altri simbolismi mitico-rituali, non è riconducibile ad un mito delle origini. La fondazione del reale non è avvenuta una volta per tutte; il senso della vita non deriva dalla ripetizione di atti primordiali ma dalle continue scelte storiche, scelte cariche di conseguenze per la salvezza e per la vita di sé e degli altri. Abbiamo qui la presa di coscienza della storicità della condizione umana e il realizzarsi del piano escatologico in un tempo irreversibile, concezione lontana ed anzi opposta a quella ciclica del tempo, quella basata sul modello dell'eterno ritorno.

E' direttamente dalla cristiana "storia della salvezza", attraverso i cui momenti, a partire da quell'evento storico che è l'incarnazione dell'Uomo-Dio, si scandisce il senso dell'esistenza umana, che deriva alla cultura occidentale, e solo a lei, la coscienza della storicità della condizione umana. L'escatologia salvifica che si attua nel tempo dischiude all'uomo il senso della storia e della sua storicità e, nella prospettiva della fede, apre il senso delle azioni storiche, fa sorgere la coscienza della tensione tra valori morali e agire concreto, tra salvezza e peccato, tra dover essere ed essere di fatto.

Tutta la straordinaria capacità egemonica dell'Occidente, la sua stessa potenza tecnologica ma anche la grandezza dei suoi valori e delle sue conquiste, fondate sulla potenza dell'operare mondano, non sarebbero state possibili senza la rivoluzionaria esperienza del tempo storico introdotta dal Cristianesimo. La capacità inesauribile di mutamento, di opere ed azioni nell'economia, nella scienza, nell'arte, nel diritto, nella morale, capacità che pone l'Occidente nella situazione di comprendere, assorbire, in alcuni casi annichilire le altre culture, la conquista di questo primato che prima di tutto, e nonostante ogni orrore storico, è primato civile, deriva dalla rivoluzione operata nel mondo antico dal Cristianesimo. Un legame a volte estremamente mediato ma sempre reale e ricostruibile corre tra i valori religiosi e rivoluzionari del Cristianesimo e l'azione morale che si sviluppa nell'agire mondano con le sue conquiste e realizzazioni.

Il processo che in Occidente conduce l'uomo ad una progressiva laicizzazione, la conquista a partire dalla Riforma di spazi sempre più ampi per l'autonomia dell'uomo, spazi che riducono quelli per il divino, avviene entro la prospettiva della civiltà cristiana. La demitizzazione, lo storicismo, la messa in discussione e il superamento progressivo dei dogmatismi religiosi e politici, il passaggio dalle teocrazie medievali alla convivenza democratica, il manifestarsi della tecnica e della produzione fuori dai vincoli religiosi e di potere, tutto questo non è altro che l'espressione di una presa di coscienza di una tendenza che la civiltà occidentale porta avanti con un riferimento più o meno mediato con il senso della storia dischiuso dal Cristianesimo. L'energia con la quale l'Occidente attualmente sconsacra, laicizza, attribuisce valore al solo agire storico, sarebbe inconcepibile senza la tradizione cristiana. Il processo di secolarizzazione, le pretese di uno storicismo trionfante che vuole ridurre tutto a storia, a prodotto umano, compreso lo stesso Cristianesimo del quale si apprezza il ruolo culturale ma si nega la verità trascendente, tutto questo non è che la continuazione e il prolungamento di una tendenza storicista che è propria solo della nostra cultura, ed è propria solo della nostra cultura in quanto questa cultura è figlia del Cristianesimo.

I valori dell'umanesimo integrale, di un umanesimo sempre più coerente e consapevole di sé, sono strettamente legati alla rivoluzione culturale introdotta nella nostra storia dal Cristianesimo. La consapevolezza di questo fondamento culturale dovrebbe bastare da sola a liquidare tutte mode e tendenze ideologiche che vedono nel Cristianesimo e nella religione unicamente delle forze oscurantiste, la causa prima delle degenerazioni dell'Occidente, vaneggiando un ritorno a situazioni pre-cristiane considerate "naturalmente" migliori. Entrano qui in gioco inconsapevolmente componenti mitiche e irrazionalistiche che finiscono per avere una funzione destorificante sulla realtà.

Il destino di Dio

Diverso è invece il problema se la coscienza storica, introdotta proprio dal Cristianesimo, non abbia, o debba avere, come esito la riduzione del Cristianesimo a mero momento storico e, quindi, al suo superamento per il tramite di una coscienza culturale tutta, ed esclusivamente, mondana. Se, cioè, allo storicismo come categoria di fondo della cultura occidentale, non sia collegata come coerente sviluppo, la consapevolezza della destinazione esclusivamente e totalmente mondana dei valori e dei prodotti umani. Il Cristianesimo potrebbe su una strada che lui stesso ha inaugurato, trasformarsi da religione viva in fatto storico e culturale del passato. In altri termini il problema che ci si può porre è a questo punto se la tendenza alla laicizzazione e alla demitizzazione sia, nella nostra civiltà, irreversibile: se il maturarsi di una coscienza storicista non abbia come esisto irreversibile la storicizzazione dello stesso Cristianesimo e il trionfo della secolarizzazione.

Sociologi, filosofi e polemisti da almeno trenta anni discettano sul problema della "Eclissi del Sacro" nella civiltà occidentale. Perfino i teologi, si pensi alla cosiddetta "teologia della morte di Dio", hanno preso posizione sulla questione: alcuni paventando altri addirittura auspicando l'evento.

Occorre chiarire che quelle che ci si presentano davanti sono linee di tendenza e non fatti conclusi. Il processo di secolarizzazione è un fatto sul quale si può discutere, del quale chi ha problemi pastorali può anche legittimamente preoccuparsi (consolandosi però con la riflessione che ove nulla può l'uomo tutto può Dio) ma non è una realtà scontata e consolidata.

Prescindendo dal fatto non trascurabile che la storia può rendere conto dei fatti dopo che sono accaduti e non prima, non avendo lo storico, come nessuno del resto, potere di previsione sul futuro, chi interpreta la secolarizzazione come il destino ineluttabile dell'Occidente commette l'errore di accettare come verità quella che è soltanto un'opinione banale: l'opinione che, nella nostra civiltà basata sulla dialettica religioso-civico, il religioso rappresenti la conservazione, il passato, mentre il civico costituisce il progresso e l'avvenire. E' una opinione consolidata nella nostra cultura, una opinione che risale almeno all'Illuminismo con l'oscurantismo clericale e il progresso dei "Lumi" e che ha trovato sovente echi in varie formule: si pensi alla successione vichiana tra l'età degli dei (religiosa) e quella degli uomini. Si andrebbe da un grado massimo di religiosità, magari rinvenibile presso i cosiddetti "primitivi", ad un grado zero della religione, quella dell'eclissi del sacro. Ma è appunto solo un'opinione, per di più intessuta di ingenuo etnocentrismo se non di razzismo, e non un giudizio scientifico o storico fondato.

La scala della civilizzazione, misurata sul metro della religione, che porta dalle età selvagge e primitive alla moderna civiltà industriale secolarizzata, è un mito evoluzionista e non una realtà storica. Il fatto che la secolarizzazione sia la tendenza dominante in atto non comporta che essa giunga ineluttabilmente sino alle estreme conseguenze: la "morte di Dio" non è una necessità logica della nostra epoca.

Certamente l'influenza e il ruolo delle chiese è minore oggi rispetto ad un passato anche recente. E' anche vero che questa perdita di influenza non è solo un dato sociologico, effetto dell'industrializzazione e dell'urbanizzazione di massa, ma rispecchia anche una presa di coscienza nella consapevolezza delle persone: non solo si crede meno ma si è anche coscienti di credere meno. E' anche vero che la diffusione di nuove religioni, in genere a carattere esoterico ed orientaleggiante, ad uno sguardo attento si rivelano, più che il segno di una rinascita del sacro, l'altra faccia della secolarizzazione. Tuttavia non sembra che, a tutt'oggi, si possa far a meno, indipendentemente dall'essere credenti o meno, dei valori offerti e fondati dalle chiese. Tutti i valori nuovi e vecchi, offerti come alternativi dalla modernità, "progressisti " come l'efficientismo tecnologico o reazionari come il razzismo, rischiano di essere autodistruttivi. Al Cristianesimo più che il nuovo, quando accade, si sostituisce il nulla. La stessa critica alla realtà contemporanea e alle sue disfunzioni avviene in termini di valori cristiani. Il Cristianesimo non ha esaurito, all'interno della nostra cultura, il suo ruolo di produttore di valori. La questione sulla fine della religione è dunque ancora aperta.

Un ultima puntualizzazione sul tema riguarda, all'interno del generale processo di laicizzazione della cultura, il ruolo proprio della Storia delle religioni. Abbiamo visto come essa proceda nella direzione di una storicizzazione e relativizzazione totale. Questa relativizzazione, applicata al Cristianesimo, non conduce a considerarlo come un prodotto storico relativo e quindi, pur valorizzandone il ruolo culturale, a intenderlo come un fatto totalmente umano? La sua storicizzazione non significa negarne l'aspetto trascendente e svilirne la pretesa di porsi come verità universale? La risposta è negativa. Per metodo lo storico deve indagare tutti i fenomeni come se fossero esclusivamente storici. Le sue risposte, pertanto, possono essere solo di carattere storico. Non può però pronunciarsi affatto sul valore trascendente delle cose da lui studiate. La sua è un'opera di chiarificazione che lascia però molto spazio ai problemi, ai dubbi, alle scelte, della fede. La Storia delle religioni non è la disciplina che dimostra l'esistenza di Dio. Ma non è, non può essere, la disciplina che dimostra che Dio non esiste.