Capitolo 7

FUNZIONI DEL SIMBOLISMO RELIGIOSO

I simboli collettivi

La creatività del simbolismo mitico-rituale avviene sempre a livello inconsapevole. Non si tratta mai, nell'elaborazione di questi simboli, di sforzi coscienti indirizzati ad uno scopo esplicito. Dal punto di vista dei soggetti partecipi questi simboli si impongono come veri prima, e al di là, di ogni razionalizzazione. Non dobbiamo immaginare l'invenzione dei simboli come la risposta cosciente di gruppi umani che, tramite questi simboli, "tenderebbero a ..." oppure si "sforzerebbero di ..." raggiungere questo o quello scopo. Essi agiscono a livello inconscio e sono prima di ogni razionalizzazione: in questo senso essi sono irrazionali (anche se naturalmente la loro razionalità può poi essere ricompresa dallo storico delle religioni). Anche nel caso di fondatori di nuovi messaggi religiosi, i nuovi simboli si diffondono solo se vengono incontro alle esigenze e necessità dei gruppi che li accolgono, esigenze e necessità profonde e pre-razionali dal punto di vista dei soggetti che ne sono portatori. Sul piano culturale non esistono simboli che siano solo individuali, che abbiano valore solo per un individuo e per nessun altro. Solo se assunto da altri il nuovo messaggio da origine a nuove istituzioni e riti. Abbiamo cioè a che fare con un fatto collettivo e sociale.

Questi simboli inconsci hanno certo una causa e una spiegazione razionali ma si tratta di cause e spiegazioni che sfuggono al soggetto coinvolto in quanto egli non può fare a meno, pena l'annullamento del simbolo stesso, di prendere con serietà i gesti rituali o i racconti mitici. O meglio, non può fare a meno di prendere con serietà questi simboli almeno sino a quando essi hanno valore per altre persone. Qualora un individuo prendesse piena coscienza della origine umana, storica, di un simbolo non seguirebbe automaticamente la vanificazione del simbolo stesso, almeno sino a quando questo simbolo continua a possedere un valore ufficiale per gli altri: da tempo si riconosce che le norme giuridiche hanno origine umana e non divina ma anche se un individuo volesse contestarle assolutamente, ad esempio attribuendo alla giustizia una funzione di classe, nondimeno dovrebbe poi fare i conti con una eventuale sentenza di condanna. Naturalmente tutto questo significa solo che gran parte della nostra cultura è per noi un dato scontato, sul quale non esercitiamo continuamente una analisi critica distruttiva e che non mettiamo continuamente e coscientemente in causa. Abbiamo a che fare con meccanismi di proiezione e oggettivizzazione dei bisogni che sono alla base di tutta la produzione simbolica collettiva. Il carattere inconscio dei simboli, pertanto, più e oltre che una valenza psicologica, indica una valenza collettiva.

Narrazioni mitiche, storie di dei, azioni rituali, norme etiche di comportamento, divieti e interdizioni costituiscono un universo simbolico che rappresenta l'intervento regolatore dell'uomo per dotare di senso la realtà non umana. Porsi limiti rigorosi, vietarsi ad esempio, cibi, luoghi, donne, tempi, significa imporre al mondo neutro della natura, al caso, al contingente, un ordinamento umano, e nel contempo garantirsi la certezza di agire secondo dovere.

Si costruisce così il senso di ciò che è umano in opposto alla materia bruta, il campo di azione lecito agli uomini. La realtà, in sé caotica, disorganizzata, imprevedibile, insensata e pericolosa, viene organizzata mediante l'attribuzione di significati simbolici che distinguono, selezionano, stabiliscono punti fissi di riferimento. Individuato il campo del lecito, distinto da quello dell'illecito, l'attività umana può dispiegarsi entro i limiti ristretti ma sicuri dell'ordine simbolico.

L'attribuzione dei simboli è inconscia, non avviene, se non raramente e parzialmente, a livello cosciente. Ciascun uomo nasce all'interno di un universo simbolico prefissato - si pensi a quel potente sistema simbolico che è il linguaggio - base di valore per le sue azioni, che gli consente di orientarsi nel mondo. Tradizioni, usi e costumi, modi di comportamento, espressioni, tutto costruisce un universo di simboli che, per certi versi sono arbitrari. Essi sono prodotti culturali e come tali non hanno necessità naturale. Nessuna necessità naturale stabilisce il diverso valore riservato all'uso della mano destra e di quella sinistra in alcune culture islamiche, né che occorre riposarsi la domenica. Questi simboli sono posti dalla cultura. Arbitrari rispetto alla natura (sono elaborati proprio per mettere ordine nella natura e dotarla di significato) non sono però privi di logica e di necessità in assoluto. La logica è quella alla base di ciascun sistema simbolico e che lo caratterizza come un sistema organico nel quale qualunque simbolo è collegato a tutti gli altri da una trama di relazioni. Lo strutturalismo mostra proprio come questo sistema sia organizzato secondo regole e come sconvolgere una sezione comporta mutamenti in tutte le altre. La necessità è invece quella storica. La cultura, come strumento che si è dato l'uomo per rispondere a certi bisogni, è un prodotto della libertà umana ma questo non equivale a dire che è frutto del caso o dell'arbitrio.

La presenza minacciata

La capacità che ciascuno possiede di essere presente al mondo, di agire con consapevolezza nell'ambiente e di mantenere adeguati rapporti sociali, ciò che possiamo definire "presenza", non è una realtà definita una volta per tutte, un bene scontato e naturale, ma una conquista quotidiana, un impegno energico di azione e trasformazione del mondo. Questo impegno trasforma la materia in valore, i bisogni in norme di comportamento, le possibilità in azioni, ciò che è semplicemente dato in voluto, prodotto della volontà. Quest'impegno consente la vita comunitaria, lo sforzo collettivo, la produzione, il sostentamento il benessere della vita intesa come valore comune. La presenza è la depositaria della forza morale (o meglio, è questa stessa forza) che continuamente costruisce e ricostruisce, superando ostacoli ed abbattimenti, qualificando come umana la vita dell'uomo.

Questa presenza è però continuamente minacciata, instabile, esposta perennemente al rischio di essere travolta. La capacità dell'uomo di essere soggetto del suo agire e non mero oggetto animato, centro di azione e non cosa, in altre parole quello che abbiamo definito presenza, può ogni momento smarrirsi davanti agli ostacoli e alle difficoltà, perdere la sua forza morale, ripiegarsi in se stessa e smarrirsi. In questo caso l'uomo smetterebbe di essere uomo, la capacità di donare significati, di intendere positivamente e di agire con criterio verrebbe meno e l'individuo sprofonderebbe nel caos dell'insignificanza. Sarebbe, qualora questo si verificasse, una apocalisse culturale, i cui effetti possono essere esemplificati da una serie di patologie psichiatriche quali alcune schizofrenie, la catatonia ed altre nelle quali il soggetto si smarrisce come centro propulsore del reale. Naturalmente esiste una distanza tra il piano individuale e clinico e il piano collettivo e culturale. Tuttavia le conseguenze dell'esperienza drammatica della deculturalizzazione rapida e violenta subita da alcuni popoli a causa del colonialismo testimonia che la similitudine non è inappropriata. Il mutismo, la passività estrema accompagnata a scoppi di violenza irrazionale, l'alcolismo, l'incapacità di agire, sono il risultato di un crollo della presenza di fronte all'impossibilità di continuare a dare un senso all'esistenza.

Il dramma della fine del mondo, avvenuto tutte le volte che nella storia una cultura si è annichilita (ma anche ogni volta che un singolo uomo, sotto la pressione della realtà ostile, perde "il bene dell'intelletto") mostra quanto sia preziosa la carica morale trasformatrice della presenza ma anche quanto questa sia fragile.

Una delle funzioni della trama simbolica che costituisce la cultura è allora quella di realizzare attorno alla presenza una sorta di rete di protezione, consentendole di scaricare in forme culturalmente accettate (anziché nella pazzia o in comportamenti distruttivi) la tensione accumulata, e di dare sfogo significativo al mostruoso, all'inatteso, all'irrazionale, all'insignificante.

Naturalmente il simbolismo culturale non può prevedere, e mettere riparo, a tutte le possibili forme di crisi individuale e di nevrosi. L'aspetto particolare e individuale ricadrà nel campo d'azione del clinico e sarà di competenza dello psichiatra (o del curatore). Vi sono però in una cultura rischi che riguardano tutti. Che uno stia male è un fatto personale ma la possibilità di star male riguarda tutti. Così la morte, propria e dei cari. O, ancora, il rischio di non sopravvivere fino all'anno successivo se il raccolto va male. Si tratta di rischi che interessano tutti, che coinvolgono tutti e che possono provocare con la loro stessa possibilità, ancora prima di realizzarsi effettivamente, un crollo morale, un pericoloso e irrecuperabile abbassamento di tensione. Se mi lascio abbattere dalla consapevolezza che morirò semplicemente smetto di essere un uomo ancora prima di morire.

Contro questi rischi la cultura da una parte cerca di provvedere elaborando tutti gli strumenti tecnici per controllare gli eventi, dall'altra costruendo un sistema simbolico di prevenzione. La crisi viene anticipata ritualmente e risolta sul piano destorificato ancora prima che si manifesti, oppure viene affrontata secondo procedure accreditate socialmente e definite che consentano di incanalarla su binari tali da evitare un travolgimento totale, da consentire prima o poi un recupero. Si tratta dello sforzo che un gruppo compie per proteggersi da ciò che non può dominare con altri strumenti, lo sforzo per dare senso e significato a ciò che è neutralmente indifferente. Anticipate e controllate ritualmente nel loro svolgimento le crisi vengono risolte in modo accettabile, tale da garantire alla presenza di recuperare la sua forza morale.

In questo modo il simbolismo mitico e rituale con la sua funzione destorificante libera e favorisce l'attività quotidiana su cui si fonda l'esistenza umana. Concentrando e personificando, ad esempio, in esseri sovraumani ciò che nella realtà in cui si vive apparirebbe come incontrollabile, e stabilendo con questi esseri un rapporto mediante il culto, l'uomo risolve problemi che altrimenti continuerebbero a rimanergli addosso in ogni momento. Scaricando le sue preoccupazioni sugli esseri sovraumani le destorifica e riducendo le sue angosce di fronte all'incontrollabile al gesto rituale di rendere un culto l'uomo può dedicare il resto delle sue energie alle attività vitali.

Natura e Cultura

L' uomo è tale nella misura in cui dona ordine ad una natura che non ne possiede, nella misura in cui umanizza con la sua azione una natura ostile e nemica. Questo, naturalmente, non significa pensare che la natura sia solo una materia indifferenziata né equivale ad attribuire alla natura una funzione moralmente negativa. Il problema, cioè, non è la realtà della natura in sé, il suo status ontologico o le sue valenze morali. Quando opponiamo la natura alla cultura non dobbiamo pensare al nostro modello di natura, a ciò che, sull'onda delle emozioni ecologiste, pensiamo noi della natura; in gioco non è la realtà fisica e chimica, la vita, la catena alimentare. Quello che intendiamo noi per natura è già infatti il risultato di un modo di pensare: è come vediamo noi la natura, che può essere diverso da come la vedono in altre culture.

La natura è intesa come il pre-umano, il caos insensato, ciò da cui l'uomo deve staccarsi e che deve dominare attraverso l'attribuzione di significati. La cultura è questo distacco e questa attribuzione. Nell'opposizione natura/cultura, pertanto, non intendiamo significare categorie universali o realtà assolute ma i poli di una dialettica che ciascuna cultura esprime a modo proprio. Mediante questa dialettica ogni cultura si realizza, si afferma e si differenzia sia dalla "natura" sia da ogni altra "cultura". Questi poli hanno dunque senso insieme, nella loro reciproca opposizione, identificando ciascuno un aspetto che ha valore solo in apposizione all'altro. Ogni distinzione oggettiva, assoluta, "scientifica" tra i due piani è insignificante. Immaginiamo ad esempio di voler distinguere i due livelli interpretando la natura come il livello biologico dell'uomo e la cultura come il suo livello sociologico. Questa distinzione salta appena la confrontiamo con la realtà di molte popolazioni presso le quali è proprio ciò che è una facoltà biologica, la facoltà di generare, a costituire il fondamento della realtà culturale: si pensi ai complessi culturali basati sugli antenati.

Inoltre anche all'interno di una stessa cultura l'opposizione natura/cultura si ripropone a vari livelli relativi ai diversi stati sociali, ai punti di vista, ai livelli di realtà. Ad esempio ciò che costituisce il livello culturale della maggioranza, il rapporto con gli antenati (in opposizione alla natura: gli animali non hanno antenati), può diventare il livello naturale al quale opporsi per costruire una diversità culturale da parte di alcuni individui particolari (ad esempio sacerdoti che stabiliscono la propria identità superando la normalità e collegandosi con l'animale mitico).

Per naturale possiamo intendere ciò che è semplicemente "dato". Analogamente per culturale possiamo intendere ciò che è "voluto". Il simbolismo, in particolare quello rituale, agisce su un materiale dato per trasformarlo e conseguire un effetto voluto. Anche il mito ha la funzione di dare ordine alla natura, tuttavia, fondando ciò che è immutabile, fonda ciò che una cultura ha "voluto" intendere come permanentemente "dato". Quando questo dato permanente viene posto in discussione (è ad esempio il caso delle rivoluzioni antigentilizie nella Grecia classica che hanno rifiutato i sistemi politici basati sulla discendenza genetica del potere), esso si trasforma in un dato naturale negativo, da rifiutare. Il mito che fondava l'ordinamento politico gentilizio, quando quell'ordinamento viene travolto, diventa un mito senza sbocco, che non fonda nulla o meglio che fonda una realtà da rifiutare.

Scrivere il mondo

Il ruolo dei simboli, come abbiamo visto, è principalmente quello di mettere ordine nel mondo costruendo un cosmo ordinato (kosmos in greco significa ordine), una realtà comprensibile, significativa per l'uomo. Si tratta di definire e di dare significato all'universo. Di scrivere il mondo nei suoi vari aspetti al fine di renderlo comprensibile all'uomo e dunque di renderlo culturalmente controllabile. Il modo in cui questi simboli, tutti, si organizzano dipende dalla storia di ciascun popolo. Tuttavia si tratta di organizzazioni del cosmo umano e naturale non casuali e capricciose. "Si crede in ciò in cui si ha bisogno di credere" che significa: si disegna un universo di significati nel modo in cui si ha bisogno di disegnarlo. Questo bisogno è condizionato dalle concrete condizioni dell'esistenza di una società, che a loro volta sono determinare storicamente. Quei fattori che identifichiamo come mitici e rituali si esprimono secondo un linguaggio simbolico che può essere ricostruito e che rinvia all’intero sistema logico della cultura che li ha prodotti.

Salvare la presenza è possibile soltanto se il mondo che ci circonda continua ad avere un senso, continua a rimanere aperto al nostro agire. Possiamo dire perciò che il ruolo che le funzioni mitiche e rituali svolgono è, in sintesi, quello di cosmicizzare il mondo, attribuendo senso, valore, grado di realtà alle cose. Queste funzioni disegnano il mondo, lo inquadrano, lo scrivono, gli danno il senso che l'uomo vuole che abbia. Costituiscono i valori, le norme dell'agire; costituiscono ciò che è vero e ciò che è falso e i criteri per giudicare; costituiscono i modi di pensare la realtà e, pertanto, la realtà stessa, in altre parole cosmicizzano.

Queste funzioni mitico-rituali sono le uniche? In parte abbiamo già risposto nel capitolo precedente. Proviamo qui a suggerire alcune possibilità, accennando alle principali categorie di cosmicizzazione della nostra cultura.

Nella nostra cultura la funzione mitica è screditata, anche se più usata di quanto ci piacerebbe pensare. Quella rituale è ancora molto attiva e svolge un ruolo importante nel campo del diritto. Sovente sottovalutiamo il ruolo del diritto nella definizione, ad esempio, della nostra realtà sociale. Ad un’altro livello una funzione simile hanno le norme etiche. Una funzione di cosmicizzazione hanno certamente le scienze, soprattutto quelle naturali. Sono esse che definiscono "la realtà naturale" e giustificano gli strumenti - la tecnologia - usati per agire su essa. Naturalmente la scienza stessa non è un universale ma un prodotto peculiare della nostra cultura, almeno a partire dal XVI secolo. Si potrebbe poi citare la geografia, che offre le coordinate spaziali per inquadrare qualsiasi evento. O ancora quell'altra forma culturale che è la filosofia, inteso come pensiero critico e strumento di sintesi delle conoscenze.

Parlare del ruolo della scienza e della geografia può sembrare singolare in un trattato che pretende di definirsi storico-religioso. Lo è solo se non riusciamo a liberarci dai pregiudizi per i quali la Storia delle religioni dovrebbe occuparsi solo di quella cosa che è la "religione". Si è visto nel primo capitolo come stanno le cose. Accanto a scienza, geografia e diritto non abbiamo citato ancora il modo di cosmicizzare, di intendere la realtà, più importante nella nostra cultura: la storia. Per noi un fatto è vero solo se è un fatto storico. Con la storia ci riavviciniamo alla Storia delle religioni. E se avremo perso qualcosa dell'oggetto di questa disciplina (la religione, appunto) non sarà un gran danno a patto di aver guadagnato qualcosa in consapevolezza.