Capitolo 6

RE, ANTENATI E MORTI

I Re carismatici

Abbiamo osservato come la funzione mitica sia quella di garantire la stabilità del cosmo mentre quella rituale presupponga la possibilità di intervenire in un cosmo parzialmente in fieri, non totalmente definito dal mito. La divinazione, poi, anche se in pratica è sempre inserita in sistemi mitico-rituali complessi, potrebbe in linea teorica fare a meno della funzione mitica configurandosi come la possibilità di intervenire volta per volta in un cosmo in divenire. Abbiamo anche visto come alla funzione divinatoria sia collegata sovente una valenza carismatica. Il bravo indovino, lo stregone potente, l'indiano fortunato al gioco, sono dotati di carisma: l'ultimo lo usa normalmente in situazioni di crisi per esercitare le funzioni di guida.

Proviamo a relativizzare queste funzioni, mitica e rituale, a due variabili: lo spazio e il tempo. Il mito stabilisce la loro immutabilità, che equivale a confini territoriali stabili, immutabili, e a un tempo che non porta mai nulla di nuovo, non muta, ovvero ritorna ciclicamente (ad esempio i cicli naturali). Il rito apre la possibilità di agire sullo spazio spostando i confini (ad esempio i riti di guerra) e sul tempo spezzando i cicli naturali: è il rito che stabilisce "quando" va svolta una determinata attività, "quando" un fanciullo diventa adulto. Si pensi ai cicli temporali artificiali come la settimana o alla costruzione dei calendari.

La funzione rituale ha però bisogno di un operatore rituale il quale detenga in sé il carisma, il potere di esercitare questi cambiamenti. In altre parole, la funzione rituale, soprattutto quella divinatoria, potrebbe essere usata per definire il cosmo senza residui mitici a condizione però che ci sia qualcuno che si assuma la responsabilità di queste mutazioni continue, qualcuno in grado con le sue azioni di plasmare continuamente il mondo, di essere garanzia, con la sua persona, dell'ordine di volta in volta stabilito e che si faccia carico dei rischi connessi con quella continua trasgressione che è l'introduzione del nuovo. Naturalmente questa non è una regola: una funzione rituale divisa in molti riti e molti operatori non avrebbe bisogno di un simile carisma. Tuttavia il massimo potere della funzione rituale si otterrebbe quando questa fosse concentrata nelle mani di un unico operatore rituale impegnato in un unico immane rito di trasformazione. A questa esigenza risponde l'istituto dinastico: il re. Occorre ribadirlo: non c'è nessuna necessità logica che le funzioni rituali si concentrino in un solo soggetto attuale. E' solo una possibilità: quando si realizza abbiamo il re.

Il re "crea" il cosmo definendolo mediante lo spazio (il territorio, sempre ampliabile, ove regna) e il tempo (che viene calcolato dalla sua intronizzazione o, per tempi più remoti, sulla base dei regni precedenti, della genealogia del re). In questo modo il re rappresenta il superamento dei limiti fissati dai soggetti mitici. In pratica elementi mitici continueranno a sussistere anche nei sistemi dinastici-regali, tuttavia in sé un sistema regale non ha bisogno di miti e in pratica ha sempre una funzione mitica ridotta.

Storicamente tutto questo si manifesta nell'opposizione tra il primo istituto dinastico, quello del faraone egiziano, e le città templari dell'antico Vicino Oriente. Il re è il demiurgo del cosmo: egli assume in sé la funzione divinatoria di organizzazione del reale e si accolla i rischi delle continue "usurpazioni": violando continuamente il già dato egli lo trasforma con il suo volere. Può farlo in virtù del suo carisma che lo pone a livello super-umano. Questo carisma - usiamo la parola per indicare la qualità super-umana del re - deriva al re dal suo padre e si trasmette in linea genealogico. Di qui l'importanza per il sovrano di definire con esattezza le origini ma anche la necessità di preservare la linea di discendenza da ogni impurità e contatto con la normale umanità: il re sposa solo parenti stretti, l'ideale è sua sorella, e comunque solo figlie di re. Si badi che il re discende dal padre e non nasce genericamente dalla madre: è il padre che genera il figlio; la madre, che pure lo genera naturalmente, è solo un elemento di mediazione. E' questa una scelta culturale che nega deliberatamente la discendenza dalla madre per valorizzare, anzi inventare, una discendenza che non sia quella immediatamente naturale.

Il carisma del re gli consente di assorbire nella sua figura le funzioni (potenziate al massimo) di indovino e di primo operatore rituale. Egli è il re-indovino, il re-operatore rituale, il re-giudice. La funzione giudiziaria, anteriore alla monarchia (come sono anteriori del resto anche quella divinatoria e quella genericamente rituale), viene sempre inglobata dal re. Del resto se la giustizia ha il compito di mettere ordine alle liti dei sudditi, il compito di esercitarla non può spettare che al supremo ordinatore. Il re è anche il sacerdote supremo: il sacerdozio prende forma, e viene istituzionalizzato, a partire dalle funzioni dell'operatore rituale che, come tale, è anteriore alla regalità. Tuttavia con il re, che è l'operatore rituale assoluto, anche il sacerdozio si definisce come una funzione da lui delegata. Per motivi pratici il re finisce infatti per delegare molte delle sue funzioni. Queste vengono esercitate a suo nome ma possono poi diventare autonome con la possibilità di giungere anche a trovarsi in conflitto con il re. Ecco i conflitti tra gli auguri (indovini) romani e il re Tarquinio il superbo; tra i sacerdoti di Aton e Amenofi IV in Egitto; tra i profeti e il monarca in Israele.

Il Primo Re

Un re è tale perché è figlio di re. Ma il primo re? La domanda è irrilevante per assenza di documentazione se intesa in senso assoluto, ha invece significato in senso relativo, ad esempio nel caso di crisi dinastica e di inizio di una nuova dinastia, oppure quando il re viene scelto fra vari pretendenti, tutti discendenti del re morto. In questo caso si può ricorrere o a un mito di fondazione della dinastia (il re consente di operare su una realtà tutta mutabile ma la dinastia è immutabile) che fondi la diversa qualità umana del re e della sua discendenza passata e futura, oppure da un atto divinatorio, o comunque rituale, che scelga, fondi, la nuova dinastia. Naturalmente può anche darsi una divinazione mitica: una dinastia fondata da un atto divinatorio avvenuto nel tempo mitico.

I vari istituti dinastici realizzati nella storia hanno percorso praticamente tutte le alternative. Osserviamo la definizione dell'istituto dinastico nella nostra cultura come è presentata nell'Antico Testamento. Nella storia ebraica un mago dotato di grande carisma (Samuele) cede il potere carismatico al primo re (Saul). Il carisma di Samuele è espresso in vari modi e più volte sottolineato (nascita prodigiosa da una donna sterile; consacrato a Dio presso il gran sacerdote Eli; parla con Dio; dopo la caduta di Eli - lo "sfortunato" Eli - prende il suo posto prestigioso): egli "indovina" il comportamento giusto, ha potere perché è dotato di carisma. Diviene giudice, cioè quasi-re, ed è inoltre profeta (nabi, cioè indovino). Poiché il popolo vuole un re Samuele per divinazione (sorteggio) sceglie Saul. Questi come primo re non ha un padre da cui ereditare il carisma del potere: la tradizione ebraica sceglie allora di farglielo derivare per divinazione, divinazione eseguita da un uomo, Samuele, che però non è certo un semplice uomo. Del resto, come se non bastasse, la divinazione per sorteggio era stata preceduta da una divinazione divina. Preavvisato da Dio, Samuele unge Saul giunto alla sua casa mentre inseguiva le asine paterne: in questo modo Saul acquista il potere carismatico dei profeti, diviene nabi. E' come se, in assenza di un padre-re, per fare il primo re occorra una doppia divinazione. Doppia divinazione che, peraltro, non basta: anziché fondato, infatti, l'istituto dinastico ebraico ne esce screditato. Nell'Antico Testamento Dio assume direttamente, senza bisogno di re umani, le funzioni di ordinatore e creatore dell'universo e di guida di Israele: ostile alla monarchia, Yahvè è Lui stesso Re.

Discendenza e Antenati

Il rapporto con i morti, e solo con certi morti, è essenziale per il re poiché egli ha la necessità di dissociarsi dal resto dei gruppi umani che costituiscono la sua comunità. Il re è tale poiché è estraneo ai normali rapporti di parentela che caratterizzano tutti gli altri individui. Il ripudio del sistema parentelare è quello che gli consente di operare a livelli diversi da quelli, ad esempio, dell'organizzazione clanica. Il re non è definito da un clan né dal rapporto con altri uomini vivi ma da un particolare lignaggio, da una dinastia, dal rapporto che lo lega ai suoi morti, al re-padre morto e a tutti i suoi predecessori. Morti, dunque, invece che vivi. E' in questa costruzione parentelare del tutto particolare, con i morti, che si forma l'istituto del culto degli antenati, realizzato mediante un particolare sistema di riconoscimento di alcuni parenti morti del re. La dinastia rende necessario il riconoscimento degli antenati e questo riconoscimento, ritualizzato, forma il culto degli antenati.

Ciò significa che in sé l'istituto dinastico si è formato contro l'istituto del sistema di parentela. Interpretando la parentela come un fatto culturale e non naturale non c'è alcuna necessità di intendere i morti come elementi necessari del sistema di parentela. Questo può benissimo essere espresso, sul piano logico, senza alcun riferimento agli antenati e alle ricostruzioni genealogiche. Nessuna delle funzioni espresse dal sistema di parentela - creare legami tra gruppi, costruire la base del sistema sociale, individuare il singolo in rapporto agli altri vivi - necessita logicamente di un rapporto con i morti. Si può ad esempio ricorrere a discendenze genealogiche con eroi (che sono cosa diversa dagli antenati) o mediante classificazioni simboliche di vario tipo. Tutte le funzioni di associazione di gruppi, svolte dal sistema di parentela, possono essere svolte prescindendo totalmente da ogni collegamento con i morti.

Il legame dinastia-culto degli antenati è necessario invece solo per le esigenze del sistema dinastico. Questo non esclude però che il culto degli antenati possa poi rendersi indipendente ed estendersi ad altri gruppi. O meglio, altri gruppi potrebbero appropriarsi di questo modello culturale rendendolo indipendente dall'istituto dinastico. Appropriazione che potrebbe essere utilizzata anche per negare il modello genealogico-dinastico del re ed opporvisi. E' quanto è accaduto in Egitto con l'usurpazione, da parte delle classi superiori, di molti privilegi tratti proprio dal principio dinastico faraonico: eredità delle cariche e osirizzazione dei morti. La divinizzazione del faraone era espressa identificando il faraone vivente con il dio Horus e il faraone padre morto con il dio Osiride. L'immortalità di Osiride era il fondamento dell'immortalità del faraone padre morto e quindi del suo legame dinastico con il faraone vivo. Era proprio perché il padre morendo non scompariva definitivamente come tutti ma rimaneva vivo come Osiride che il faraone manteneva il suo potere: il legame con il padre non scompare essendo, il padre, immortale. Appropriandosi dell'osiridazione, cioè di quell'immortalità dopo la morte propria di Osiride, le classi elevate si garantivano insieme una vita dopo la morte e l'ereditarietà delle cariche. Di qui l'importanza per queste classi del legame con gli antenati in funzione antimonarchica.

A partire dall'istituto monarchico la ricostruzione delle genealogie si è diffusa di fatto a vari livelli. La generalizzazione a vari strati sociali, e potenzialmente a tutti gli uomini, delle esigenze connesse con l'istituto dinastico implica la perdita delle funzioni originarie, quelle di fondazione della monarchia, ma non di ogni funzione: semplicemente se ne aggiungono di nuove. Ad esempio la ricostruzione genealogica può divenire parte essenziale del sistema di parentela ed assorbire alcune delle funzioni di questo; oppure può avere conseguenze nella direzione di elaborare una nozione di immortalità, di vita dopo la morte, fondamentale per definire in modo nuovo il valore dell'identità personale.

La nascita dell'immortalità

E' possibile che tutti i sistemi di culto degli antenati o di ricostruzione genealogica, diffusissimi nel mondo, abbiano avuto origine storica a partire dagli istituti dinastici. La questione naturalmente non è l'elaborazione di una storia congetturale su come dall'istituto del faraone abbiano avuto origine i culti degli antenati, poniamo, cinesi. Il problema è interpretare il rapporto con i morti in termini diversi dal problema dell'immortalità dell'anima. A lungo invece il culto degli antenati è stato collegato proprio con il problema dell'immortalità, come se tutte le culture che stabiliscono un rapporto con i morti lo abbiano fatto in risposta all'esigenza di proteggersi dalla paura della morte, come se la questione principale per tutti gli uomini fosse di garantirsi una certezza di immortalità personale.

In senso stretto ciò che occorre per avere una dinastia, indipendentemente dal fatto che questa sia regale o di un individuo qualsiasi, è l'accertamento dell'esistenza di determinati antenati (in genere alcuni ascendenti maschi) e il riconoscimento del rapporto con questi antenati. Non si tratta ancora di un culto ma di una presa d'atto che ha lo scopo di individuare la persona che la opera e di qualificarla come discendente di certe persone. Il riconoscimento può poi anche avvenire in forme ritualizzate e realizzare così il culto degli antenati: in questo caso il rito da una parte definisce gli antenati come esseri sovraumani e attribuisce loro determinate caratteristiche per simbolizzare determinati aspetti della realtà (quelli appunto controllati e definiti dagli antenati), dall'altra consentirà di agire sulla realtà trasformandola. Il culto viene rivolto, cioè, a dei morti (e solo alcuni) considerati esseri sovrumani, e questo avviene nell'interesse dei vivi. Non possiamo pertanto, nelle nostre interpretazioni, partire dai morti e spiegare la loro condizione e il loro potere; al contrario occorre partire dai vivi per comprendere le motivazioni che li spingono a intraprendere la ricostruzione delle linee genealogiche e poi ad attribuire a certi morti una particolare funzione rituale. Si badi, infatti, che non tutti i morti sono importanti ma solo quelli che interessano ai vivi. Il problema non è perché (e a quali condizioni) i morti aiutano i vivi ma perché i vivi scelgono i morti (alcuni di loro) per le loro esigenze pratiche, terrene, di cosmicizzazione.

Certo al culto dei morti è collegata l'idea della sopravvivenza dopo la morte. Possiamo dire che questa idea dell'immortalità sia stata introdotta nella storia proprio dal culto degli antenati. Nel culto degli antenati la sopravvivenza è collegata ai lignaggi: perché un lignaggio formato da tanti morti e da un solo vivente possa riprodurre la solidarietà di un gruppo clanico (e sostituirla a vantaggio, ad esempio, del re) è necessario che il vivente istituisca un rapporto solidale con quelli che ritiene i propri morti mediante il culto e che quei morti non scompaiano dalla realtà attuale ma sopravvivano alla morte temporale.

E' il culto che presuppone l'immortalità dopo la morte e non il semplice riconoscimento di una linea genealogica. E' possibile cioè avere necessità di ricostruire una linea dinastica con dei morti (ad esempio per questioni ereditarie) senza che ciò comporti la necessità di dover stabilire alcun culto con quei morti. Una semplice ricognizione pertanto non basta a far sorgere l'idea dell'immortalità: occorre stabilire un culto ed è anzi il culto che fa l'antenato immortale. Questo significa che l'escatologia che è connessa con il culto degli antenati è prodotta dal culto stesso e non deriva dal problema generico: "che succede dopo la morte?". La paura della morte non è infatti una generica paura umana. Occorre distinguere la paura psicologica dalla paura culturale: un conto è il cosiddetto istinto di conservazione, un sentimento naturale che ci porta a fuggire i pericoli, e un altro una cultura che insegni ad aver paura della morte, anzi a dover aver paura della morte. In questo caso avremo un valore culturale. Valore che può essere anche rovesciato: una cultura che insegni a non aver paura della morte.

A questo punto le domande che dobbiamo porci davanti ad una cultura che pratica il culto degli antenati o comunque che attribuisce un valore ai morti sono: quale potere e perché viene attribuito ai morti? Come si inserisce questo potere nel sistema di valori che caratterizzano una certa cultura? Che vantaggio i vivi traggono dal culto dei morti (o dalla paura del loro ritorno)?

Morti buoni e cattivi

I morti esistono dunque soltanto per i vivi: sono i vivi a dar vita ai morti per le loro esigenze. I morti possono esistere come esseri ben identificati (gli antenati) con i quali stabilire un rapporto che, se corretto, va a tutto vantaggio dei vivi; oppure possono essere considerati, collettivamente al fine di significare l'extraumano negativo, il male. E' il pericolo del "ritorno dei morti" inteso come ritorno irrelato di ciò che è passato per sempre e che ora minaccia di travolgere, rendendola morta, ogni forma culturale. Questi morti sono minacciosi, fanno paura.

Questo equivale a dire che una cultura insegnerà ad avere paura dei morti utilizzando proprio i morti (e non altri) per simbolizzare il rischio dell'annullamento totale dei valori insito nell'agire umano. Nulla infatti è garantito per sempre e un ombra di precarietà accompagna i momenti dell'esistenza. Per quanto una società operi e costruisca valori, umanizzando una natura in sé caotica e insignificante, il suo agire è sempre garantito solo in parte. Da un momento all'altro nemici incontrollati, calamità inattese, eventi inaspettati e imprevedibili (invasioni, epidemie, disastri naturali ...) possono rendere vani tutti questi sforzi. Una sorta di spada di Damocle pende sulla testa di ogni comunità: per simbolizzare questo rischio di annicchilimento che ogni cultura corre possono essere scelti i morti. Ma simbolizzare il rischio è anche un modo per controllarlo, per fargli acquisire un significato agli occhi degli uomini, trasformarlo da rischio irrelato in rischio calcolato al quale gli uomini possono adeguatamente porre rimedio.

Tutti i pericoli concreti ma incontrollabili (anzi indicibili nella loro imprevedibilità), vengono significati, "detti", con il pericolo del ritorno incontrollato dei morti. Ma un pericolo potenziale non è ancora un fatto reale: i morti possono ritornare ma qualora si riuscisse a farli tornare solo entro certe forme precise il rischio sarebbe eliminato. Ecco allora che i morti ritornano ma solo in un periodo determinato dell'anno e per un tempo ben preciso; essi non torneranno in modo incontrollato ma per ricevere una serie di riti (esempio: offerte di cibo) che ne placheranno la furia distruttiva. Poi torneranno indietro al loro mondo lontano e i vivi saranno liberi di svolgere ancora una volta le loro normali occupazioni.

Dato un orizzonte all'angoscia della fine e dati gli strumenti per definire quest'orizzonte, si aprono nuovamente gli spazi per la concreta, quotidiana, azione umana. Davanti al pericolo di una "fine del mondo" nella quale siano abolite le distanze vivi-morti, è possibile premunirsi con adeguate contromisure mitiche e rituali. Esempio frequente è il rito che trasforma un morto malevolo in antenato benevolo: elimina la naturalità insita nella morte e culturalizza il morto in antenato. Si badi che il simbolo che costruisce la possibilità del ritorno collettivo dei morti non costruisce affatto anche il tema dell'immortalità dell'anima. I morti che ritornano sono un gruppo anonimo e confuso, indeterminato. Il problema che dobbiamo porci di fronte alla rappresentazione del ritorno dei morti non è se un vivo rimane immortale dopo la morte ma quali siano i pericoli esistenziali che si vuole rappresentare mediante la ritualizzazione di questo ritorno collettivo.

Immortalità e salvezza dalla morte

L'escatologia connessa con il culto degli antenati ha la funzione di stabilire un legame morti-vivi tale che i primi aiutino i secondi nelle loro esigenze mondane. La funzione dei morti è di offrire ai vivi una salvezza del tutto immanente. Vi è però, in alcune culture, anche la ricerca di una salvezza diversa, trascendente. La salvezza della vita dopo la morte. Questa ricerca è caratteristica del Cristianesimo, dell'Islam e del Buddhismo. In questa sede possiamo prescindere dall'Islam, il cui sviluppo è legato a quello del Cristianesimo e che da questo deriva. La salvezza cristiana è una salvezza positiva, è la salvezza dalla morte intesa come salvezza dalla morte eterna: la morte fisica non è la fine di tutto ma l'inizio di una vita eterna. Da parte sua il Buddhismo offre invece una salvezza negativa: la sua salvezza è la fine del ciclo delle reincarnazioni, la realizzazione di una non-esistenza nel Nirvana (ni- prefisso negativo), la morte eterna e la fine delle rinascite.

La salvezza del Cristianesimo è dunque il frutto di una storia originale e rivoluzionaria rispetto alle culture precedenti. Esaminiamo i due monoteismi dell'area medio-orientale. Il mazdeismo iranico, almeno sino al contatto-scontro con l'Islam, propone una salvezza tutta mondana con un "salvatore" che è colui che officia il rito di "Salvezza del mondo" il cui scopo è la rinascita, il rinnovamento, del reale. Per quanto riguarda Israele non è certo che i primi libri dell'Antico Testamento, almeno sino al Deuteronomio, presentino un'esplicita escatologia salvifica, comprendente una nozione dell'immortalità individuale. Nel periodo post-esiliaco vi sono nei Profeti dichiarazioni riguardo una Resurrezione futura. Non è chiaro però se questa Resurrezione sia individuale o si riferisca al complesso del popolo di Israele. Con il secondo libro dei Maccabei abbiamo una escatologia salvifica in senso cristiano ma si tratta di testi scritti in epoca vicina al Cristianesimo stesso. Tuttavia se è vero che il Cristianesimo appare il solo a proporre esplicitamente una escatologia individuale salvifica, è anche vero che esso nasce in un ambiente che è ricco di dottrine soteriologiche, soprattutto nella forma misterica. La crisi del mondo antico genera una funzione misterica intesa come rifiuto del mondo (naturalmente non del mondo in astratto ma di quel mondo romano-ellenistico ormai in crisi) e una funzione soteriologica intesa come salvezza in un mondo a venire (escatologia).

Sotto questo aspetto elementi misterici sono presenti nel primo Cristianesimo: si pensi al Regno dei cieli, alla Passione, Morte e Resurrezione. Nei Vangeli sinottici il termine "mistero" è usato per indicare il modo che ha il Cristianesimo di intendere il Regno futuro e di operare per giungervi. I Cristiani sono gli iniziati (mysteria) a questa sapienza. Inizialmente dunque il Cristianesimo è un mistero: in seguito opponendosi e confrontandosi con l'Impero Romano si definisce però come religione. Questo passaggio ha arricchito il Cristianesimo di una diversa dimensione salvifica rispetto all'elemento misterico iniziale: il messaggio salvifico ultraterreno è rimasto intatto ma ad esso si aggiunge anche una salvezza relativa, mondana, storica. E' lecito pregare Dio per la salvezza dell'anima ma anche per il "pane quotidiano".

Similmente il Buddhismo, nel suo sviluppo storico ricco di sincretismi, aggiunge alla salvezza assoluta nel nulla del Nirvana anche una salvezza terrena, corporale. Stesso discorso per l'Islam, nel quale i due livelli di salvezza sono strettamente legati sin dall'inizio. Le tre religioni salvifiche a livello universale relativizzano la loro salvezza anche al livello terreno, temporale. Ciò è inevitabile per certi versi, in quanto tutte e tre, pur presentando una salvezza assoluta, non possono non essere anche legate a elementi culturali concreti.

Istituto regale e coscienza storica

Attribuire ad un uomo, il re, la facoltà di agire a livello cosmologico come un soggetto mitico, ha pesanti conseguenze culturali. Si tratta anzi di una vera rivoluzione che ha per oggetto l'avvento della storia. La sostituzione della documentazione dell'azione regale (narrazioni delle conquiste del sovrano, esaltazioni delle sue opere, ricordi della sua presenza, iscrizioni monumentali, elenchi dei suoi avi) alla documentazione mitica dell'origine e della progressiva definizione dell'ordine cosmico, porta infatti come conseguenza di sapere "chi" è il re e "cosa ha fatto". Domande che rimangono sul piano storico e alle quali si risponde narrando le azioni del re e non raccontando miti.

L'usurpazione e l'espansione ad altri livelli dell'ideologia della "generazione regale" rafforza ulteriormente questa coscienza. Riassumiamo gli elementi di questa ideologia della generazione regale: il lignaggio del re è inteso come clan ideale; il culto degli antenati rappresenta il rapporto ideale con i membri morti del proprio lignaggio maschile; la discendenza patrilineare significa il distacco dalla comune discendenza mondana femminile; l'escatologia è intesa come superamento della morte storica. Una serie di usurpazioni portano alla generalizzazione delle funzioni regali: la generalizzazione di queste funzioni in potenza a tutti gli individui equivale ad una moltiplicazione di re, fino a giungere al cittadino provvisto di diritti regali e al popolo sovrano.

Il legame ideale con i morti, dal quale il re derivava le sue prerogative, contribuisce all'acquisizione di una personalità giuridica, come persona dotata di diritti inviolabili, consapevole, e capace di operare per il proprio futuro. La possibilità di ricostruire le linee genealogiche si traduce nella possibilità di garantire le successioni ereditarie e il diritto di proprietà. Padrone del proprio territorio l'individuo è il padrone di sé. L'escatologia, inizialmente legata all'immortalità del padre del re, garantisce la coscienza storica dai rischi di un disorientamento dopo la cessazione dell'orientamento mitico. Nulla è più garantito dal mito e tutto è possibile: il nuovo padrone di sé potrebbe commettere errori ma nulla è definitivo e questa vita, imperfetta, non è l'unica. Invece che dal "prima" mitico si è orientati dal "poi" escatologico. La demitizzazione, realizzata con la sostituzione di ogni soggetto mitico con un soggetto storico, si traduce in una acquisizione della coscienza storica.

Naturalmente non vi era necessità alcuna che il processo di demitizzazione fosse portato sino alle estreme conseguenze, né questa trasformazione è avvenuta ovunque. Era solo una possibilità: si è realizzata nella cultura occidentale.