Capitolo 1

LA RELIGIONE COME PROBLEMA STORICO

Definizione del campo di studio

Il primo problema che incontra chi si accinge per la prima volta ad occuparsi di Storia delle religioni è proprio la definizione del campo di studi. A prima vista questo non sembra affatto un problema: compito della Storia delle religioni sarebbe di ricostruire le manifestazioni di quel particolare aspetto della cultura costituito dalla religione, illustrando come sono mutate secondo le varie epoche e presso i vari popoli le concezioni e le dottrine religiose. Così come la Storia dell'arte ricostruisce il susseguirsi delle manifestazioni artistiche dall'antichità ad oggi, con specializzazioni per le varie epoche (ad esempio l'arte medievale) e per le varie civiltà (ad esempio l'arte egiziana o cinese), analogamente la Storia delle religioni dovrebbe mostrare il susseguirsi delle varie religioni nella nostra cultura (per esempio la religione greca, quella romana, il Cristianesimo) o nelle altre (per esempio le religioni primitive o il Buddismo o l'Islam). A distinguere la Storia dell'arte dalla Storia delle religioni sarebbe dunque la diversità dell'oggetto: l'arte nel primo caso e la religione nell'altro. Data per scontata l'esistenza di un oggetto particolare (l'arte o la filosofia ...), ne seguirebbe per conseguenza la possibilità di fare la sua storia nel tempo e presso le varie civiltà: così come vi è una Storia della filosofia, una Storia dell'arte, una Storia del diritto, esisterà anche una Storia delle religioni.

La religione viene in questo modo vista come una realtà autonoma, particolare, presente in tutte le culture: si da per scontato cioè che ogni cultura abbia un insieme di teorie e pratiche che si possano intendere come "religione", così come ogni cultura avrà le sue pratiche che deve essere possibile intendere come "diritto" ben distinte da altre che definiremo "arte". Ciascuno di questi settori avrà poi la sua "storia" particolare e queste "storie", pur avendo occasionalmente argomenti in comune si distingueranno le une dalle altre per la differenza dell'oggetto.

Questo ragionamento, in apparenza così sensato, nasconde però gravi difficoltà teoriche e forti rischi di fraintendimento. Una prima conseguenza è che in questo modo si viene a considerare riduttivamente il compito della storia come quello di descrivere i vari modi di manifestarsi nel tempo di una realtà, mentre la storia è molto più di una semplice descrizione cronologica. Una seconda conseguenza è che si da per scontato proprio ciò che è invece il principale argomento in questione: la religione. Non appena infatti abbandoniamo la nostra cultura per rivolgere l' indagine alle culture di altri popoli ci troviamo immediatamente in difficoltà. E' lecito, ad esempio, inquadrare nelle nostre categorie l'Induismo come religione? O non è piuttosto una filosofia? Se badiamo al fatto che le tradizioni indiane presentano milioni di dei allora verrebbe naturale ritenerlo una religione. Se invece guardiamo alle profonde riflessioni sul senso della vita e dell'universo presenti nell'Induismo allora potrebbe apparire utile definirlo come una filosofia. Se poi guardiamo alle normali pratiche delle popolazioni indiane, come il timore estremo del contagio dell'impurità, il rispetto per le vacche, le usanze di casta ed altro ancora, allora potremmo qualificarlo come magia, superstizione, morale, diritto. Eccoci in una confusione classificatoria dalla quale non si esce isolando gli aspetti "autenticamente" religiosi distinguendoli da altri, culturali e sociali, "accessoriamente" religiosi: in questo caso infatti la scelta di ciò che è religioso e di ciò che è non-religioso rimane largamente soggettiva ed arbitraria. Né si esce da questa confusione dicendo che l'Induismo è un insieme di tutte quelle realtà (magia, religione, diritto,...) unite, magari, ad altro ancora. Dire che l'Induismo è tutto infatti non ci aiuta a capirlo meglio. Tanto vale allora rinviare il problema di come classificare l'Induismo e dedicare la nostra attenzione ad una analisi critica delle nostre categorie interpretative. Tra queste, per i nostri scopi, la prima da sottoporre a verifica è proprio la nozione di religione.

Quello che dobbiamo chiederci è se sia lecito, in sede storica, interpretare elementi culturali di altre culture utilizzando la nostra categoria di religione. Un dubbio che è tanto più lecito in quanto in nessuna delle altre culture del mondo, oltre alla nostra, esiste un concetto paragonabile o analogo al nostro concetto di religione e in nessuna lingua non occidentale esiste un termine in grado di tradurre la nostra parola "religione". Naturalmente a seguito del contatto con l'Occidente, sia a seguito della colonizzazione sia per acculturazione, oggi tutti i popoli, praticamente, dispongono e utilizzano il termine e il concetto di religione: lo hanno però mutuato da noi e non si tratta di un elemento culturale originario. Il Cristianesimo, elemento determinante nella definizione della cultura occidentale (al punto che i fondamentalisti islamici per designare gli occidentali li definiscono Cristiani) ha portato alle varie popolazioni la nozione di religione: tuttavia, prima dell'incontro/scontro con l'Occidente, nessuna cultura possedeva la categoria di religione per designare certi aspetti del reale (pratiche, comportamenti, credenze) e per distinguerli da altri ritenuti non-religiosi.

Si potrebbe obiettare che all'assenza del termine non deve corrispondere necessariamente l'assenza del fatto. Pur non conoscendo e non utilizzando un termine/concetto di religione, cioè, questi popoli potrebbero avere ugualmente un insieme di pratiche e di norme che poi noi potremmo legittimamente definire religiosi. Secondo questa obiezione anche se nessuno, oltre agli Occidentali, ha un termine equivalente al nostre termine "religione" nondimeno "l'essenza" del fatto religioso sarebbe presente in tutti i popoli: tutti avrebbero una religione, magari inconsapevolmente, magari mescolata ad altre pratiche, magari rozza e primitiva ma pur sempre riconoscibile come religione.

Prescindendo dall'arbitrio di presupporre che un popolo abbia una religione anche se non lo sa, così operando trasformiamo però la religione da problema storico in problema metafisico. La religione diviene una categoria eterna dello spirito, una dimensione permanente dell'animo umano, un tratto universale in grado di manifestarsi nella storia e di condizionarla ma che in sé è sottratto alla storia, è prima della storia, nel senso che la sua genesi sarebbe fuori dalla storia. Secondo questo ragionamento vi sarebbe prima la Religione, con la maiuscola, e poi la descrizione delle sue manifestazioni storiche: religioni primitive, Cristianesimo, Buddismo, Islam, e via di seguito. Tutte le varie religioni storiche sarebbero aspetti di un'unica realtà fondamentale: esse mostrerebbero ciascuna un aspetto del vasto campo della Religione senza però mai esaurirlo completamente. In questo modo la religione viene intesa come una componente universale dell'uomo, un elemento della civiltà separata dalle altre componenti e dagli altri prodotti culturali, una dimensione del reale autonoma rispetto alle altre. La conseguenza però è che così separiamo la religione di ciascun popolo dal resto dei rapporti culturali di quella civiltà, ci allontaniamo dalla realtà e inseriamo la religione in un contesto puramente ideale rispetto al quale il compito della storia è assai ridotto. Scivoliamo lentamente ma inesorabilmente nel campo della metafisica: se la religione è qualcosa di connaturato all'uomo, qualcosa che precede la storia, potremo al massimo descriverne le manifestazioni storiche ma non comprenderla per intero come fatto storico. Le stesse esperienze religiose vissute dagli uomini nelle varie culture potrebbero al massimo venire descritte ma non mai spiegate completamente in termini storici poiché per definizione la religione rimanderebbe al metastorico. Le categorie razionali potrebbero avvicinarsi ma mai comprendere totalmente l'esperienza religiosa.

Simile in realtà, anche se muove su un piano materialistico, è la tesi che riduce la religione a fatto psicologico. La religione sarebbe un fatto innato dell'uomo, un prodotto del suo inconscio, interpretabile, a seconda delle varie scuole, come sublimazione di pulsioni, come manifestazione di archetipi pan-umani, come espressione innata dei bisogni dell'uomo. In questo modo la spiegazione psicologica sposta l'accento dalla storia alle scienze della natura: la religione, fenomeno secondario di altre realtà psichiche primarie, è ridotta a fattori inconsci, individuali o collettivi che siano. Fattori determinabili tutti sulla base delle leggi naturali che regolano la psiche. In questa ritirata dalla storia alla natura quello che si perde è proprio la ricchezza della varietà storica. Puntando tutta l'attenzione sull'origine psichica della religione si finisce per perdere di vista la spiegazione della straordinaria varietà delle concrete, storiche, manifestazioni religiose. Naturalmente questo non significa che la psicologia non abbia posto nello studio dei problemi storico-religiosi. Ammettendo che lo stesso ambito della psiche è, almeno in certi limiti, storicamente e culturalmente condizionato, può essere utile, e vedremo come, per la Storia delle religioni considerare i fattori psicologici. Ma in questo uso non si tratta più di interpretare la religione come semplice prodotto psichico, su un piano ideale pan-umano.

Questa ritirata nell'irrazionalismo metafisico o nel naturalismo psicologico è esattamente ciò che non è concesso allo storico. Naturalmente nulla vieta a chi è mosso da altri interessi (filosofici, teologici, fenomenologici) di occuparsi delle religione come se fosse una dimensione eterna dello Spirito o una dimensione permanente della mente o dell'animo dell'uomo, come se fosse cioè una realtà naturale o metafisica sottratta al divenire storico: una realtà sempre esistita ma della quale solo a partire da una certa epoca si sia avuto il concetto. Si tratta di interessi legittimi ai quali corrispondono metodi di indagine particolari e adeguati alle differenti prospettive. Non sono però né i metodi né gli interessi dello storico il quale, per definizione, ha a che fare solo con prodotti storici e deve guardare alla religione come se fosse unicamente un fatto storico, un prodotto culturale. La Storia delle religioni studia la religione come prodotto storico indipendentemente da ogni riferimento trascendentale rispetto alla storia (come ad esempio la verità oggettiva o la salvezza che il credente si aspetta dalla sua fede, aspetti questi che rientrano nella sfera di competenza della teologia). La religione non può essere vista come un fatto autonomo, separato dal resto del contesto storico e slegata rispetto al resto della cultura bensì va vista come un prodotto culturale umano, un fatto esclusivamente storico. L'ipotesi corretta da cui partire è che se un popolo non ha ritenuto di definire alcuni aspetti della vita come religiosi è perché non ha aspetti della vita che sono religiosi.

 

Il Cristianesimo e la nascita della religione

Lo stesso nostro concetto di religione, del resto, non è sempre esistito ma è esso stesso un prodotto storico che si è formato (e continua a formarsi) nel corso della nostra civiltà - a partire dallo scontro del Cristianesimo con altre correnti ideologiche e culturali del mondo antico - mediante la trasformazione del termine latino religio. Questo termine designava inizialmente certi atteggiamenti e pratiche (timori, tradizionalismi, divieti) che solo in minima parte coincidono con ciò che oggi intendiamo per religione. Neanche nella cultura romana, pertanto, che pure è quella dalla quale abbiamo derivato il termine religio, esisteva qualcosa di corrispondente al nostro concetto di religione. Questo concetto è nato a seguito dell'incontro tra Cristianesimo e cultura romana. Per poter far trionfare il suo messaggio universalista ed evangelico, con una forte componente di proselitismo, il Cristianesimo dovette qualificarsi ed individuarsi in opposizione ad alcuni fatti culturali romani. Considerata la natura "religiosa" del Cristianesimo questi fatti romani cui si voleva opporre vennero considerati anch'essi come religiosi. Di una religiosità però sbagliata, opera del demonio: nasce così il paganesimo come religione negativa. Assumendo il Cristianesimo e il paganesimo come religioni opposte, i Cristiani poterono definire la loro diversità rispetto ai pagani mediante la diversità dei contenuti della fede. I contenuti religiosi del paganesimo, gli dei e i riti del politeismo, erano falsi, mentre i contenuti religiosi del Cristianesimo erano veri. Questa scelta ebbe notevoli conseguenze per la nostra storia culturale. La prima conseguenza è che da allora sono divenuti centrali, nella definizione di religione e quindi anche per distinguere una religione vera da una falsa, i contenuti della fede, il tipo di fede. La seconda è che distinguendo all'interno della cultura romana una una sfera religiosa, ovvero il paganesimo, da una sfera che definiremo "civica", il Cristianesimo poté sostituirsi come religione vera al falso paganesimo lasciando però intatti tutti quegli aspetti della cultura romana classica che potevano essere valorizzati. Presentandosi come una religione vera che va a sostituire una religione falsa, il Cristianesimo poté ritagliarsi, all'interno della cultura romana un campo d'azione, quello religioso, nel quale inserirsi senza distruggerla totalmente. Tutti i tratti culturali della sfera "civica" - si pensi alla dialettica tipica della cultura di Roma tra pubblico e privato, allo Stato come Res pubblica, alla giurisprudenza e, in età imperiale, alla filosofia greca - vennero non solo lasciati integri ma anzi valorizzati dal Cristianesimo. Questo consentiva al Cristianesimo di utilizzare tutta quella parte della cultura romana che non sembrava inconciliabile con il proprio messaggio religioso ed anzi appariva utile: ad esempio la giurisprudenza per le formulazioni del diritto canonico e la filosofia classica per le formulazioni teologiche. Ebbe così origine quella distinzione tra la sfera religiosa e quella civile che caratterizza la nostra cultura ma che era sconosciuta alla cultura romana. Distrutta nella sua organicità la cultura romana ha a questo punto termine e nasce la Civiltà Cristiana. Una rivoluzione culturale della quale noi ancora oggi siamo il prodotto.

Il termine religio, nel nuovo significato di religione, venne imposto dal Cristianesimo a tutte le lingue indoeuropee e il concetto di religione ha finito per essere usato per coprire ciò che, nelle altre culture, aveva riscontri analogici con i fatti cristiani. Rimane da spiegare perché il Cristianesimo ha scelto proprio il termine religio per definire se stesso. Una risposta certa necessiterebbe di un'indagine che è ancora largamente da completare. Si possono però avanzare delle ipotesi. Nella cultura romana per indicare alcuni culti rivolti in esclusiva ad una divinità, e pertanto che caratterizzavano esclusivamente quella divinità, si utilizzava il termine religio. I Misteri Eleusini, ad esempio, con il loro insieme di culti rivolti esclusivamente a Cerere, venivano definiti religio Cereris. Il Cristianesimo, con il suo intransigente monoteismo e con il culto rivolto esclusivamente a Dio, poteva facilmente essere definito religio, ed i suoi fedeli essere religioses.

La nostra abitudine a distinguere i fatti religiosi dal resto delle manifestazioni culturali di un popolo (a distinguere il religioso dal civile) si rivela pertanto, quando ci occupiamo di culture diverse da quella occidentale, solo un arbitrio. Separare certi tratti culturali, qualificandoli come religiosi, da altri non religiosi equivale a fraintendere la realtà storica. Il compito dello storico è dissolvere tutti quei fatti qualificati a lungo come religiosi nella concretezza culturale delle altre civiltà, evitando di imporre le nostre categorie interpretative e cercando invece di ricostruire le logiche interne di queste culture. In alcuni casi saremo autorizzati a usare il concetto di religione, in tutti quei casi nei quali abbiamo a che fare con la cultura occidentale o con altre (per esempio l'Islam) che si sono strettamente confrontate con essa. In altri casi no. Rimane comunque che non potremo mai separare alcuni fatti sottraendoli alle interpretazioni storiche per inserirli su un piano ideale, attingibile solo dai metafisici o dagli psicologi. Il compito dello storico è cancellare ogni assolutezza e relativizzare ogni valore e tratto culturale alla civiltà che ne è portatrice. Anche se a volte può essere corretto usare la religione come un elemento di qualificazione di determinate unità culturali (ad esempio: Civiltà Cristiana o Islamica) rimane comunque che si tratta di un uso derivante da un giudizio storico e non basato su diversità qualitative dei fatti religiosi rispetto al resto dei fatti culturali.

I diversi fatti storici che qualifichiamo come religiosi dunque sono legati strettamente agli altri aspetti culturali delle varie popolazioni e delle varie civiltà e, tranne che per la civiltà occidentale, non abbiamo alcun diritto di distinguerli dal resto della cultura.

Ciò di cui occorre renderci conto è che la stessa concettualizzazione della religione è, per noi, un fatto storico. La religione non è sempre esistita ma è un prodotto della cultura occidentale nel suo sviluppo ed anzi un prodotto rivoluzionario tale da connotare in modo decisivo l'Occidente. Si è costruita una abitudine nostra, un nostro condizionamento culturale, a pensare certi fatti in termine di religione. Condizionamento del quale dobbiamo prendere coscienza per eliminarlo. Non solo dunque non abbiamo alcun diritto, se non quello derivante da un pregiudizio, di interpretare come "religiosi" fatti di altre culture ma dobbiamo anche ammettere che se il concetto di religione si è formato nella nostra civiltà, e con essa si trasforma, non potrà avere un significato eterno.

Le difficoltà di natura pratica e teorica nelle quali ci imbattiamo nel nostro sforzo di trattare la religione come un fatto autonomo nascono in realtà da una consuetudine: la consuetudine propria della nostra cultura che ci porta a distinguere e classificare i fatti religiosi come diversi da quelli non religiosi. Nella nostra cultura è possibile in effetti isolare un sistema di valori qualificati come religiosi e distinguerli da un altro sistema di valori che potremmo definire civici. Si pensi, come esempio, alla distinzione, presente solo nella nostra cultura, tra feste civili e religiose, tra il battesimo di un neonato e la sua iscrizione all'anagrafe. Si tratta di due livelli di realtà che coesistono. Alla sfera del religioso appartiene la dialettica sacro/profano; a quella del civile la dialettica pubblico/privato. Il profano non si identifica con il civile: il profano è semplicemente ciò che non è sacro. L'ostia, prima della consacrazione non è "civile", né è "civile" il fedele che non è stato "consacrato" sacerdote. Il civile gioca su un altro piano, quello sul quale tutti i cittadini (da cives), indipendentemente dalla loro fede e dalle loro qualifiche religiose, sono sottoposti al diritto pubblico e al diritto privato. Ecco allora la possibilità per noi di isolare la sfera del religioso da quella del civile e di affidarne lo studio ad un'apposita disciplina, la Storia del Cristianesimo. Non è però lecito operare questa distinzione nelle altre culture: farlo significa ridurre le realtà altrui alla nostra e dunque fraintenderle. Né è possibile pensare che la nostra è una definizione riduttiva di religione, alla quale pertanto si potrebbe opporre una definizione più ampia: quella offerta non è una definizione ma la ricostruzione di come si è formato questo concetto nella storia. Rifiutare questa ricostruzione come irrilevante in nome di una più ampia definizione di religione, tale ad esempio da includere l'Induismo, significherebbe considerare come irrilevante un fatto storico accertato in nome di una definizione astratta ed arbitraria perché soggettiva. Dal punto di vista storico i fatti non sono mai irrilevanti. Questo significa che l'Induismo non è una religione? Pazienza, l'importante non è dargli questa o quella qualifica assoluta, poiché la storia non ha per obiettivo quello di giungere a definizioni assolute, ma comprenderlo storicamente. Quanto agli dei dell'Induismo, e al problema della fede degli Indiani in questi dei, la domanda corretta, che mette in causa la nozione indiana di "fede" e la nozione indiana di "divinità" (senza cioè pretendere di applicare meccanicamente all'India le nostre nozioni di fede e di divinità), è: quali funzioni hanno gli dei dell'Induismo? Per quali motivi gli Indiani hanno attribuito agli dei proprio quelle funzioni?

 

La magia scomparsa

La storicizzazione del concetto di religione, e l'avvertimento circa l'impossibilità di usare questo concetto come una definizione universale sotto la quale catalogare fatti diversissimi dai nostri, ci consente anche di superare una delle più annose questioni storico-religiose: il problema della magia.

Si è a lungo discusso sul carattere della magia disputando se essa fosse una fase anteriore alla religione, una componente più o meno necessaria della religione, o l'antagonista della religione. E' stata vista come una religione poco sviluppata, propria di popolazioni "incivili", legate a concezioni appunto magiche dell'esistenza. E' stata considerata come un elemento costante e sempre presente, sia pure in misura variabile, di ogni esperienza religiosa. E' stata infine vista come l'opposto della religione, il negativo rispetto al positivo religioso: quella che distrugge e nega laddove la religione propone valori positivi e costruisce la civiltà.

Falsi problemi che derivavano da una mancata storicizzazione del problema e che ripercorrevano, per la magia, la stessa strada percorsa dalla religione: quella di ritenerla una categoria autonoma della cultura, un insieme di comportamenti permanenti e irriducibili ad altre valenze.

Proviamo a vedere cosa rimane della magia dopo una adeguata storicizzazione. Per magia si intese inizialmente, ci riferiamo alla Grecia arcaica, un insieme di pratiche divinatorie e di arti rituali proprie dei Magi, sacerdoti del Mazdeismo (il monoteismo iranico) e dei Caldei. In realtà la cultura indoiranica della Persia e i Caldei erano cose ben diverse ma furono confusi insieme dai Greci in un unico, esotico, mondo iranico dal quale provenivano tutte le stranezze e le novità considerate negative. L'arte divinatoria, considerata magia, era estranea alla cultura greca e al culto degli dei: essa si diffuse tra gli strati meno colti della popolazione, quelli che in qualche modo pur essendo greci erano percepiti come "stranieri", non perfettamente integrati (schiavi, residenti non cittadini, mercanti, servi, donne, prostitute ...). Di qui il marchio ideologico (ma anche sociale) di attività estranea al culto degli dei e pertanto opponibile all'edificio sociale ed etico che in quel culto si riconosceva. Nella Roma repubblicana l'opposizione alla magia orientale fu rafforzata con divieti giuridici, gli stessi che perseguivano una serie di pratiche "negative" quali la preparazione di veleni, incantesimi ed altro. Quanto alla divinazione per sorte, definita "caldea", Roma aveva da sempre un orientamento ufficiale contrario sia agli indovini che a ogni forma divinatoria che non fosse quella esercitata dagli àuguri e non poteva che perseguire queste pratiche orientali estranee alla sua cultura. Il Cristianesimo, che già in sé era originariamente privo di elementi divinatori, ereditò da Roma le valenze antidivinatorie e antimagiche. Intendendo se stesso come religione intese parimenti la magia come antireligione, non-religione. In questo modo la magia diveniva una forma di irreligione e rientrava nella sfera di influenza del demonio. Ciò fornì una giustificazione teologica a molti processi per magia, processi che però non erano che la continuazione dei processi intentati ai praticanti di magia già avvenuti in età romana.

Nel periodo dell’umanesimo la "riscoperta" della magia fu lo strumento per una riconsiderazione della dimensione umana in opposizione alla cultura scolastica medievale. Naturalmente la riscoperta della magia non significa riscoprire tracce di una sapienza scomparsa ma la costruzione di un nuovo universo culturale e di nuovi valori che si è deliberatamente scelto di chiamare magia proprio perché il termine magia consentiva di opporli alla cultura religiosa dell’epoca. I nuovi contenuti "magici" sono dunque un prodotto culturale sorto per esigenze storiche e non la riscoperta di una qualche verità. Tantomeno sono una il risultato di una particolare disposizione dell’animo umano, o la riscoperta di una qualche realtà naturale o, infine, una qualche forma di religiosità. Questa rinascita della magia sotto il segno positivo la vedeva infatti comunque distinta e in opposizione rispetto alla religiosità tradizionale. Il cambiamento di segno non cancellava, cioè, la connotazione della magia come elemento non religioso se non, addirittura, antireligioso.

Magia e religione vengono da allora ad essere i poli opposti di una alternativa che è tutta interna alla nostra tradizione e alla nostra cultura. Solo per noi, grazie alla nostra eredità greco-romana filtrata dal Cristianesimo e dall’Umanesimo, esistono queste due categorie distinte - magia e religione - ciascuna con una valutazione opposta all'altra. Proiettare quest'opposizione in altre culture, con storie e tradizioni estranee alla nostra, che non hanno avuto né la tradizione greco-romana con la loro opposizione per Magi e i Caldei né la polemica umanista, equivale a fraintenderle. Fuori dall'opposizione con la religione la magia svanisce e se non possiamo parlare di religione per gli altri a maggior ragione non potremo parlare di magia.